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Economia, 1Talento Di Pensiero

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Renè Magritte, une belle difference.

Renè Magritte, une belle difference. - Difensore della salute

 

 

 

 

 

Renè Magritte[1], une belle difference[2].

 

 

 

 

 

 

 

Renè Magritte (1899 Lessines / Belgio, 1966 Bruxelles) fu uno dei maggiori rappresentanti del ‘surrealismo‘ in pittura, movimento fondato da Andrè Breton che fu anche suo appassionato collezionista. 

 

 

 

 

“Ecco Popaul, mio fratello che è un imbecille perchè non gliene importa nulla di nessuno, e Raymond che è anche peggio; questo è mio padre e quella, la governante, è la sua amante e questo è un figlio bastardo...“[3]

 

Magritte ha diciannove anni quando con un amico si presenta a pranzo dal padre, apostrofando i presenti con insolenza : era ancora lo stesso Renè quando, quattordicenne, trascorreva il pomeriggio al cimitero appena dopo il suicidio della madre Règina ? A novembre si sarebbe iscritto al liceo di Charleroi, ma pochissime sono le notizie di quegli anni su cui Magritte stesso evitava di  parlare, così come delle sue opere che rifiutava di giustificare al pubblico.

 

Nel 1916 incontra Georgette che sposerà, finito il servizio militare, nel 1921 e che sarà sua amata compagna per tutta la vita : il loro appartamento a nord di Bruxelles diventa la sede del movimento surrealista belga. Di quei sabato sera trascorsi a ballare a casa con gli amici restano alcuni video casalinghi in cui Magritte sorride, finalmente riposato.[4]

 

Nel 1923, quando già espone quadri Magritte vede al MoMa[5] di New York il “Canto d’amore“ dipinto da Giorgio De Chirico nel 1914, ma solo nel 1938 commenterà nei suoi “Ecrìts“ : “Questa poesia trionfante ha sostituito l’effetto stereotipato della pittura tradizionale. E‘ una completa rottura con le abitudini mentali proprie degli artisti prigionieri del talento, del virtuosismo e di tutte le piccole specialità estetiche. E‘ una visione nuova nella quale lo spettatore ritrova il suo isolamento e ode il silenzio del mondo.“

 

Di questa novità che non lo fa dipendere da uno ‘stile‘, sebbene venga considerato uno dei maggiori rappresentanti del ‘surrealismo‘[6], il primo quadro di Magritte è “La finestra“ (1925), seguito da : “Il doppio segreto“ (1927), “Tentativo impossibile“ (1928), “La risposta imprevista“ (1933), per citarne solo alcuni in cui il metodo dell‘ “automatismo psichico“ e del “comando del pensiero“ predicato dal surrealismo non si fa traguardo nel lavoro del pittore belga.

 

Anzi, la sequela quasi religiosa con cui i surrealisti parigini circondano Andrè Breton, e che già provocava divisioni nel Movimento, allontanano Magritte e la moglie che, anche per ragioni economiche nel 1929 tornano in Belgio da Parigi, dove per alcuni anni si erano stabiliti.  

 

Nel 1934 lo stesso Andrè Breton, forse preoccupato da una rottura con chi già godeva di un discreto successo, propone a Magritte di preparare la copertina per “Qu’est-ce que le Surrèalisme ?“ che riporta il testo della Conferenza appena tenuta da Breton a Bruxelles.

 

E Magritte presenta a Breton “Le viol“ (1934), con le parole : “Spero che questo progetto di copertina vi piacerà; credo anche che sia eccellente da un punto di vista pubblicitario.“

 

Ironico e distante come solo l’onirico può, persino nella denuncia più feroce, in “Le viol“ invece Magritte si arresta bruscamente, calandosi nella parte a lui odiosa del sadico. Attraverso questo quadro dolorosissimo egli arriva infatti, poco alla volta a ricostruire una responsabilità insospettata di Règina e di un suicidio su cui, fin da quel lontanissimo 1912 gravava il silenzio ostinato di quanti non volevano tornare, parlare, sciogliere. 

 

Magritte affronta in questo quadro, che ripeterà solo una volta e con maggior chiarezza nel 1945, un tema a lui nuovo, quello della difesa del corpo : e dovrà, con molta sofferenza ammettere che Règina, pur di mantenere il candore ingenuo di “anima bella“[7] aveva scelto, tacendo, di rinunciare a difendersi, anzi di rivoltarsi contro sè stessa.

 

La ‘non‘ innocenza di Règina, ingenua ma rigida nella sua ingenuità, allontana definitivamente Magritte dalla donna che era stata ‘anche‘ sua madre.

 

E l’arte ha dedicato moltissimo lavoro al tema della difesa del corpo femminile : il celebre Giorgione[8] ad esempio affida, con una capacità davvero surreale, la difesa della donna al partner maschile ne “La tempesta“ (1502-1503), richiamando così il “Tentativo impossibile“ (1928) di Magritte.

 

In entrambe le versioni di “Le viol“, quella del 1934 e quella del 1945, la donna cede ad una ingenuità che le sarà fatale nell’ostentare una bella ‘in-differenza‘, ‘nessuna-differenza‘ all’altro : ma ponendo per la prima volta l’accento sulla imputabilità di entrambi, uomo e donna.

La capacità, così frequente in Magritte di trasformare il grottesco dei ‘perchè‘ a cui egli non può rispondere, nella leggerezza di un sospeso che renda ancora possibile trovare soluzioni qui manca, e comprensibilmente : anzi il vuoto della presenza umana, in questo quadro ha un posto preciso dal quale segna lo spettatore.

 

La critica di Magritte, individuale, forte, e socialmente condivisibile alla nevrosi si rende funzionale, dalla  nuova prospettiva, alla rinuncia al rapporto ed a una partnership con l’altro quando questa venga delegata ad una funzionalità fallica, astratta ed imperativa che fa sorvolare sulla  imputabilità della ‘non‘ soddisfazione, sia maschile che femminile.

 

La seduzione ingenua, che nel successivo lavoro del 1945 viene accentuata dalla morbidità di un corpo femminile che si sovrappone alla indisponibilità dello sguardo passa, nella ricostruzione di Magritte, attraverso la inespressività dell‘oggetto-che-non-imputa-nulla, e che può farsi quindi  immediatamente consumabile.

 

Ma già con i ‘Preraffaelliti‘[9] il tema della ‘seducente indisponibilità‘ trovava, e trova tuttora, un pubblico di appassionati.

 

 

                                                                                           Marina Bilotta Membretti, 9 gennaio 2020

 

 

Riferim. Illustraz.: P_20182909_113846/ 0_5427634_125008

[1] Renè Magritte (1898, Lessines / Belgio – 1967, Bruxelles)

[2] “Une Belle indifference”, termine riferito alle pazienti isteriche, fu introdotto da J.M.Charcot, neurologo presso la Clinica “Salpetrière” di Parigi (1862-1893) dove curava le crisi isteriche con terapia ipnotica. Sigmund Freud introdusse la psicoanalisi, abbandonando l’ipnosi dopo esser stato allievo di Charcot (1885-1886).

[3] “Renè Magritte. Catalogue raisonnè”, a cura di D. Sylvester e S. Whitefield, 5voll.; “Magritte”, a cura di D. Sylvester – Torino 1992; “R. Magritte. Ecrìts complets”, a cura di A. Blavier – Parigi 1979.

[4] Video presentati in occasione della Mostra organizzata a Lugano dal MASI, 16 settembre 2018 – 6 gennaio 2019 “La ligne de vie“, dal titolo di una rara conferenza che Magritte tenne al Musèe Royal des Beaux-Arts d’Anverse (Belgio) in omaggio ai surrealisti ma in realtà parlando della propria opera.

[5] The Museum of Modern Art, New York.

[6] Il‘surrealismo’ nacque in Francia negli anni ’20 come movimento d’avanguardia ed ispirò non solo la pittura ma anche la letteratura ed il cinema : “automatismo psichico” e “comando del  pensiero” sono termini usati da Andrè Breton nel Primo Manifesto del Surrealismo (1924), ma non tengono conto della differenza fra attività dell’inconscio ed Es, novità introdotta da Freud di cui, pure, Brèton si riconosceva sostenitore.  

[7] Dal filosofo Plotino (204-270 d.C.) che introdusse il termine ‘anima bella’, passando per Rousseau (1761), Schiller (1793), Goethe (1796) fino a Hegel in ‘Fenomenologia dello spirito’ (1807) : ‘anima bella’ indica la possibilità, logicamente astratta, di un altruismo puro nell’umano.

[8] Giorgione, o meglio Giorgio da Castelfranco (1478-1510) fu pittore assai ricercato della Repubblica di Venezia ed altrettanto misterioso ed enigmatico.

[9] La Confraternita dei Preraffaelliti fu un’associazione artistica fondata nel 1848 da John Everett Millais, Dante Gabriel Rossetti, William Hunt a cui si unirono altri, ed influenzò la pittura del XIX secolo in Gran Bretagna ma ebbe, ed ha tuttora, una sentita risonanza anche altrove.

Robert Doisneau, chasseur d'images.

Robert Doisneau, chasseur d'images. - Difensore della salute

 

 

 

 

Chasseur d'images, Robert Doisneau.

 

 

 

 

 

 

Ciò che l’occhio non aveva ancora colto, ma che fa ‘catturare l’immagine’/ Riferim.illustraz.: 0_5419075_125008.jpg

 

 

 

“Mi sento euforico ad osservare… fino a non poterne più”.[1]

 “Si arriva in un luogo, mi piace, c’è qualcosa… c’è un attimo decisivo in cui tutto è in armonia, fra le cose intorno… Poi le persone si mettono nella foto e click, è fatta!

E’ molto stressante, quando scatto l’immagine, perché : la perderò ? …no, è bella!”

 

Allontanatosi giovanissimo dalla famiglia e dalla periferia, che “…odiavo fino a desiderare di distruggerla…” ricorda Doisneau, a ventidue anni incontra Pierret e decidono di sposarsi subito : Robert lavora portando con sè la moglie e presto le due figlie, Annette e Francine e poi cognati, amici come una movimentata tribù da cui non si separerà mai. 

Sono gli anni, fra il 1934 ed il 1938, del suo lavoro come operaio in ‘Renault’.

“ ‘Renault’ non ha alcun senso dell’umorismo – commenta Robert a proposito del datore di lavoro – e riesce a governare solo incutendo terrore…” I servizi fotografici nella fabbrica ‘Renault’ e soprattutto le critiche al ‘sistema’, le frequenti assenze per correre in laboratorio a sviluppare le pellicole non piacciono a Monsieur Renault ed arriva il licenziamento. Doisneau comincia però a prendere sul serio la ‘fotografia’ e dai servizi occasionali venduti ai giornali arriva a procurarsi incarichi più duraturi.

 

E' già il tempo della propaganda nazista, e poi di quella che Doisneau chiama la “fottuta guerra…” E lavora con un socio, Paul Baravet detto Babà che gira Parigi in bicicletta per portare le foto ai clienti e che, con la sua aria innocente riesce a salvare tantissimi dalla deportazione e dai campi di concentramento. Robert si rifiuterà sempre di fotografare l’indicibile, anche nelle sue foto più dure prevale l’aspetto leggero della vita. 

C’è “…molta povertà dappertutto e vita amara a Parigi, ma si può pensare che la gente sa divertirsi”, commenta tornando a fotografare la periferia, e ne osserva attentamente le dimensioni, i nuovi colori.

“Per scusarsi, hanno colorato…”, dice senza mai essere caustico.

 

L’occhio non raccoglie subito ciò che fa ‘catturare l’immagine’ : è solo dopo, in laboratorio sviluppando la pellicola, che ‘quel’ particolare che lo scatto aveva raccolto prima di averlo registrato, finalmente si rende evidente. E Robert se ne rende conto confrontando il risultato con ciò che non ricordava di aver visto. 

Più tardi, quando nascerà la ‘Fotografia umanista[2]’ che è già una concezione di vita e della quotidianità e non invece regole prestabilite, Doisneau nominerà per la prima volta l’ ‘inconscio ottico’ che ben orienta verso quel ‘prendere’ dell’occhio che ‘cattura’ e che infatti è secondario al ‘contatto’ riservato alla pelle. 

 

“Negli Stati Uniti la gente balla tenendosi ad una certa distanza…”, osserva Robert e sembra divertito durante il suo soggiorno negli anni ’80, quando già lavora per il settimanale ‘Life’. 

Sono gli anni in cui, proprio negli Stati Uniti nasce il mercato della fotografia :  Robert presenta un proprio portfolio, curato da Monah Gettner, attrice presente nel film-documentario “Robert Doisneau, le rèvolte du merveilleux”.

Ed inaspettatamente il lavoro di Doisneau verrà raccolto dai maggiori fotografi americani che sapranno rendersi i migliori interpreti di questa nuova arte.   

 

“Tu scatti – diceva Robert Doisneau – e fa già parte del passato”.

 

 

     

                                                 Marina Bilotta Membretti, Cernusco sul Naviglio 29 novembre 2019

 

 

 

 

 



[1] La citazione, come le successive di questo editoriale è tratta da “Le rèvolte du merveilleux” (2016) – in italiano “La lente delle meraviglie” - film-documentario di Clementine Deroudille e con, oltre Clementine Deroudille, Eric Caravaca, Sabine Azèma, Quentin Bajac, Jean Claude Carriere.

[2] La ‘Fotografia umanista’ nasce negli anni ’30 con Henry Cartier-Bresson (1908-2004) : “l’oggetto della foto è l’uomo, l’uomo e la sua vita così breve, così fragile, così minacciata…” Diventa però un fenomeno sociale e pubblico solo nel 1950, appena finita la 2° Guerra mondiale con “Le Baiser de l’Hotel de Ville” di Robert Doisneau, pubblicata senza rumore sul settimanale statunitense “Life”, a cui Doisneau già collabora : proprio questa fotografia anzi, diventerà il Manifesto di una nuova tendenza. Doisneau acquisterà fama presso il grande pubblico con la Mostra realizzata a New York nel 1955, “The Family of Man” e curata da Edward Steichen.

Talento... negativo ??

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Talento… negativo ??

Psicoanalisi e progresso[1].

 

 

 

Il talento negativo “è una legge normativa, non imperativa (non dà comandi e non introduce coazioni)…“ nel silenzio ‘non‘ rivendicativo dei propri talenti, siano essi fisici, culturali o altro : non è una legge ‘naturale‘ ma frutto di un pensiero ‘sulla‘ natura[2].  

  

 

 

 

 

 

Cosa si potrebbe concludere dalla politica espansiva di Mario Draghi, apprezzato presidente attuale della Banca Centrale Europea[3] ?

 

E’ indubbio che la sua presenza competente ed autorevole abbia favorito, nel rispetto delle regole imposte dal suo mandato, la ripresa economica in Italia ed un contemporaneo rallentamento del debito pubblico, con la auspicabile prospettiva di una riduzione complessiva del rapporto Debito / Prodotto interno lordo.

 

Che tale politica, condotta con modalità anche non convenzionali[4] ma comunitariamente appoggiata sia stata una buona idea, lo dimostrano ad esempio i dati incoraggianti della Spagna, nazione meno cospicua dell’Italia anche in termini di autorità in Europa, che ha saputo però migliorare i propri dati aggregati inizialmente assai sfavorevoli, confermando così un governo lungimirante anche riguardo alla coesione degli Stati alleati.

 

Oggi che il governo di Mario Draghi è prossimo alla sua naturale conclusione, anche la politica espansiva ha evidentemente raggiunto il massimo traguardo, e proseguire non sarebbe più conveniente soprattutto nei confronti degli investitori extraeuropei sui quali si fonda qualunque profitto che possa dirsi reale. E dunque ?

 

Nella Storia viene in mente il Caso delle Repubbliche Marinare, nessuna delle quali tuttavia arrivò prudentemente a definirsi tale : prima di tutte fu Amalfi che intorno alla fine del 1300, dopo aver subìto incursioni e saccheggi ed aver organizzato una difesa efficace, si attribuì una propria autonomia governativa. Registrando la propria ‘indipendentia de facto’ che proveniva sia da una autonomia economica fondata sui ricchi scambi commerciali con l’Oriente che su una potente flotta di navi, Amalfi si diede una Costituzione da città-stato con la possibilità anche di battere moneta con propria zecca indipendente, di imporre tributi ed emanare leggi sul proprio territorio e sul mare.

 

Con originale imprenditorialità ci si ingegnò, ad esempio a produrre carte pregiate, esportate all’estero con profitto a partire dagli stracci, vendendo i quali anche i più poveri ricavavano una risorsa monetaria per attrezzarsi come imprenditori : la sartoria infatti, goduta ed apprezzata assai in questi secoli bui ed asfissianti, era un’attività semplice da imparare ed in cui investire per arrivare ad aprire bottega con prospettive allettanti.

 

Ed appena un secolo oltre, a fine ‘500 dalla Cartiera ‘Armatruda’ di Amalfi venivano scodellati i primi ‘pagherò’, progenitori delle carte di credito che tuttora usiamo.

 

Ma quella produzione ingegnosa oramai langue, nessuno più procura più ‘stracci’… Forse che non abbiamo nulla da riciclare con beneficio anche economico ?

 

Per un breve, indimenticabile periodo le Repubbliche Marinare furono una gloria dell’Italia…

 

A chi le invidiava sfuggì di raccoglierne l’intraprendenza per imprendere a propria volta : ciò che avrebbe anticipato, nell’iniziale e già colto panorama europeo una prima, intelligente e certo lungimirante Confederazione.

 

 

 

                                                  Marina Bilotta Membretti, Cernusco sul Naviglio 23 settembre 2019

 

 

 

 

Riferim. Illustrazione: 70398852_901783196857648_2611582472382578688_n.jpg

 

 

 



[1] L’editoriale di oggi prende spunto da “Il progresso in psicoanalisi“ di Morris N.Eagle pubblicato su ‘Psicoterapia e scienze umane’, Anno 2018, Vol.52, n.3 – Franco Angeli Editore.

[2] Citaz. Da : “Il pensiero di natura - Giacomo B.Contri, 1996 - SIC Edizioni pp. 169-174

[3] Mario Draghi è il terzo presidente B.C.E., essendo stato eletto il 1°novembre 2011 e terminerà il suo mandato il 31 ottobre p.v.

[4] E‘ la politica di ‘quantitative easing’, o ‘allentamento quantitativo’ condotta da Mario Draghi per intervenire sul sistema finanziario ed economico di uno Stato con debito elevato, aumentandone la moneta in circolazione.

Tradurre, vocazione di una civiltà.

Tradurre, vocazione di una civiltà. - Difensore della salute

 

Tradurre.

Vocazione di una civiltà.

 

Nella illustrazione, la lavorazione di un ricamo armeno (‘Sketches‘ armenianembroidery.tripod.com https://images.app.goo.gl/JU2apUuGweft2jPaA)

 

 

 

 

‘Tradurre‘ ha, in armeno classico un suono profondo, che non puoi pronunciare sovrapensiero: il suono ti induce a pensarci. In effetti “…rimane il fatto che (l’alfabeto armeno) non nasce come elaborazione collettiva frutto del commercio, della comunicazione sacra o giuridica nel corso dei secoli, bensì come frutto squisitamente psichico… individuale, in un dato momento nel tempo.“[1]

“L’Armenia fu il primo paese al mondo ad adottare il Cristianesimo come religione di stato nell’anno 301. Poichè i riti e le preghiere si svolgevano in Greco o in Siriaco, fu necessario inventare un alfabeto...“[2]

“Ogni lettera è un monumento…, la lingua originale e la fede hanno permesso agli armeni di rimanere in qualche modo indenni attraverso i secoli…“[3]

“Con l’approvazione del Re Vram Chahpuh (392-414) e del Catholicos Sahak Bartev (354-439), il monaco Mesrob Mashtots (361-440), teologo linguista ed in seguito proclamato santo, si mise in viaggio alla ricerca delle lingue dei diversi popoli ed arrivò in Siria ed Egitto. … Alla fine del 404 Mesrob Mashtots riuscì ad ottenere un gruppo di 36 lettere…“[4]

Ne risultò una scrittura con alcuni spiccati caratteri grafologici che indicano capacità di concentrazione ed elaborazione emotiva, rigore e chiarezza : quei frequenti movimenti verticali, in su e in giù che la mano deve compiere invitano senza pedagogia ad un lavoro individuale sulla tentazione all’Ideale. E poi le differenziazioni, l‘assenza di collegamento fra le lettere, i ripiegamenti frequenti della linea e quel cambio continuo di posizione favoriscono la capacità di ascolto in chi scrive, e dispone al silenzio ed alla elaborazione.

Dapprima fu tradotta la Sacra Scrittura, poi il Nuovo Testamento e infine l’Antico Testamento. “La traduzione della Sacra Scrittura in lingua armena viene considerata dagli specialisti la ‘regina delle traduzioni‘ per la sua bellezza linguistica e la sua precisione nella scelta dei significati…[5] E la Chiesa armena considera santi tutti gli uomini delle traduzioni e festeggia due volte all’anno – in giugno ed in ottobre - i ‘Santi Traduttori‘, primo dei quali è Mesrop Mashtots inventore dell’alfabeto.

Tradurre è, in effetti ‘la‘ vocazione umana e fin dalla nascita : ciò che si ‘fa‘ nel venire al mondo non è forse percorrere l’unica via possibile quando il luogo da cui si proviene è divenuto inospitale ? Altro non si sa se non quello che via via si sperimenta per la prima volta : se quello che ci viene incontro è meglio di prima oppure no, si riconosce l’ “accettabile“ – improponibile nella precedente vita intrauterina - ed allora ci si ferma, da pro-fugo senz’altro perchè ciò che ci precede è l‘ “inospitale“, primo lemma umano : laddove ci fermiamo è l’ “approdo“ compiutamente soddisfacente, anche quando transitorio. Uno sull’altro, i traguardi costruiscono il capitale vitale della memoria, che giustamente rifugge le sconfitte.

Nella cucina della tradizione armena, che traduce in modo eccellente una paziente disponibilità umana ad elaborare individualmente – e non in quanto massa o gregge - di chi va verso Paesi nuovi, si richiede una manualità ben allenata a lavorazioni finissime e tuttavia rapide che permetta di riproporre le antiche ricette, di viva memoria, usando gli ingredienti disponibili della terra su cui ci si è fermati.

“Se quella del non-ritorno di chi viene a studiare in Italia, fino alle soglie del 1915 poteva sembrare una scelta deliberata, col precipitare degli eventi in Anatolia per molti ragazzi diventa una tragica imposizione : si salvano dallo sterminio ma perdono genitori, fratelli, parenti e amici, luoghi natali, legami con ricorrenze ed usi tradizionali… Nello scorrere del tempo si crea… uno spazio bianco in cui ogni contatto col proprio retroterra si interrompe….

Esperienza che viene documentata attraverso le lettere inviate : prima del 1915 nelle lettere ci si racconta della vita di ogni giorno, si chiedono rassicurazioni ed anche si comunicano peggioramenti della situazione in Anatolia. “…Poi il silenzio, lo spazio bianco dell’annientamento senza parole, più nessuna lettera e notizia.“[6]

“Il 1915 è l’anno simbolo del genocidio armeno, ma è anche l’anno in cui l’Italia interrompe la propria presenza diplomatica in Anatolia ed entra in guerra con la Turchia… I massacri, le violenze  e le deportazioni di cui sono vittime questi particolari sudditi dell’Impero ottomano non avvengono in un luogo qualsiasi, nè per opera di un regime sconosciuto.

Sono al contrario riconducibili a chi in quel momento è il nemico di un’Italia in guerra e può essere condannato senza alcuna reticenza diplomatica… Per i pochi armeni allora residenti in Italia questa coincidenza… costituisce un fattore mobilitante : …devono dimostrare la propria diversità rispetto ai turchi“, anche assumendo “comportamenti attivi nei confronti del paese ospite“ che valorizzino “la propria appartenenza e le proprie prerogative culturali.“[7]

“Con ‘diaspora‘ non si individua un vero e proprio gruppo, ma si identifica uno spazio sociale ed immaginario che include sia individui sia istituzioni che hanno un forte punto di riferimento col paese e col luogo da cui un tempo si sono staccati. L’appartenenza alla diaspora, almeno per la prima generazione, di armeni che arrivano in Italia è un fatto oggettivo, descrive una condizione. Per le generazioni successive l’appartenenza non può prescindere da una componente soggettiva.“[8]

Il divario fra l’ideale di chi vive in diaspora e la realtà di un Paese, l’Armenia ancora in costruzione può essere molto forte come riferisce nel 2013 uno studente nativo di Armenia ma emigrato con la propria famiglia in California negli anni Novanta : “Per i miei coetanei nati in diaspora l’Armenia rappresentava la terra promessa dove tutti parlavano armeno e dove si poteva contemplare il Monte Ararat dalla finestra.

Per noi l’Armenia era ed è una serie di ricordi di un’infanzia trascorsa in inverni freddi, dove mancava tutto, dall’acqua potabile ai libri di testo ed all’elettricità, sempre in stato di bisogno permanente…“[9] Il problema dell’integrazione, insomma può scivolare facilmente in una frustrante doppia appartenenza.

Ma è nel XX secolo che la lingua armena acquisisce in Italia status accademico e diventa materia di studio universitario.

Fra il 1915 ed il 1918, esce a Torino con regolarità mensile la rivista ‘Armenia‘ che “raccoglie con puntualità tutte le notizie diffuse dalla stampa italiana ed internazionale sull’evolversi della condizione degli armeni in Anatolia e nel Caucaso… e Antonio Gramsci così commenta : ‘A Torino qualcosa si è fatto. Esce da qualche mese una rassegna intitolata appunto ‘Armenia‘ che con serietà di intenti, con varietà di collaborazione dice cosa sia, cosa voglia e cosa vorrebbe diventare il popolo armeno…‘ “.[10]

Nel 1984 viene edito a Milano il 1° numero che sarà anche l’unico della rivista ‘Dissonanze. Immagini per una cultura armena‘ con l’obiettivo di una indagine rispetto “alle sfide della melanconia, della chiusura autocompiaciuta, della dissipazione e del mimetismo.“[11]

A Roma, esce nel 1979 il 1°numero della rivista ‘Zeitun‘ che “pone un bivio netto fra l’accettare l’acculturazione nella diaspora… e l’uscire dal torpore e lottare per la riconquista delle nostre terre.“[12]

A Venezia… per tutto il decennio 1977-1987 si trasferisce la pubblicazione della rivista ‘La Voce armena‘ che vuole “diventare l’organo distampa rivolto a tutta la colonia armena d’Italia…     soprattutto riguardo all’indipendenza di uno Stato armeno dai confini che non siano limitati a quelli della Repubblica Sovietica d’Armenia, dove “la russificazione  della comunità armena sembra inarrestabile…“[13]

Ciò tuttavia conduce  l’opinione pubblica e non solo armena a focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla tragedia del genocidio del secolo, più che sulla capacità di fare società civile nel Paese in cui si vive.

Nel settembre 1994 a Roma viene inaugurata la prima sede dell’ambasciata armena in Italia. Ciò investe istituzionalmente la diaspora armena in Italia della rappresentanza di tutti gli armeni residenti…

Il 17 novembre 2000 la Camera dei deputati del Parlamento italiano riconosce il genocidio armeno su cui invece “continua a tacere la Turchia… tacciono gli Stati Uniti… Tace infine anche Israele…“[14]

“L’Armenia di oggi, come anche l’Iran è fra i pochi luoghi al mondo – dato il loro isolamento politico – ad avere resistito in parte alla mutazione antropologica…“ a cui stiamo invece assistendo in Europa.

“Un Paese con meno di tre milioni di abitanti, con scarse risorse ed un’economia in dissesto… capace però di dare accoglienza, soprattutto ad armeni siriani discendenti dei sopravvissuti al genocidio del 1915…

Una terra che vive ancora grandi drammi, fra cui un conflitto senza fine con l’Azeirbagian per il controllo del Nagorno-Karabakh… ma anche con un potenziale incredibile di sviluppo da un punto di vista culturale, educativo, economico ed oggi perfino turistico.“[15]

Ma il riconoscimento  da parte del governo italiano fu un atto pubblico indispensabile a ridimensionare il genocidio quale unico fattore di coesione della civiltà armena.

“Dopo millenni di sudditanza, l’Armenia ha raggiunto l’indipendenza.

Dunque perchè migrare ? Perchè lasciarsi integrare ? Perchè perdere l’uso della lingua ?" [16]

 

                                                              Marina Bilotta Membretti, Cernusco sul Naviglio 22 agosto 2019



[1] “L’enigma dell’alfabeto armeno tra visione e realtà”, p.27-44. Atti del Seminario “L’enigma dell’alfabeto armeno tra visione e realtà” tenutosi a Roma il 9 gennaio 2016 all’Istituto Centrale dei Beni Sonori ed Audiovisivi (ICBSA), ideato e organizzato da “Tenera mente Onlus” e “Assoarmeni”, con i contributi di Alfredo Ancora, Enrica Baldi, Paola Bianchi, Kegham J. Boloyan, Marinella Canale, Laura Efrikian, Anna Rita Guaitoli, Narinè Jaghatspanyan, Seta Martayan, Furio Pesci, Massimo Pistacchi, Paola Urbani, Daniel Varujan. E’ anche il Fascicolo n°2 della Collana “Laboratorio Montessori” diretta da Furio Pesci, Gioacchino Onorati Editore Srl. A cura di Enrica Baldi, grafologa e con la prefazione di Antonia Arslan, scrittrice.

[2] “L’enigma dell’alfabeto armeno tra visione e realtà” cit., p.11

[3] Alberto Elli, autore di “Armenia. Arte, storia e itinerari della più antica nazione cristiana” 2019 - Edizioni Terra Santa, in una recente presentazione.

[4] “L’enigma dell’alfabeto armeno tra visione e realtà” cit., p.11-14

[5] “L’enigma dell’alfabeto armeno tra visione e realtà” cit., pp.11-14

[6] “Presenza armena in Italia, 1915-2000”, di Agop Manoukian – Guerini e Associati Editori 2014, p.26-27. Agop Manoukian è nato a Como nel 1938 da madre italiana e padre armeno, scampato ai massacri di Adana (Cilicia), arrivato in Italia nel 1925. E’ stato presidente dell’Unione degli armeni d’Italia e ne è tuttora Presidente onorario.

[7] “Presenza armena in Italia, 1915-2000” cit., p.12

[8] “Presenza armena in Italia, 1915-2000” cit., p.14

[9] “Presenza armena in Italia, 1915-2000” cit., p.133 tratto da www.armenianweekly.com / 2013 / 06 / 26 di Gegham Mughnetsyan

[10] “Presenza armena in Italia, 1915-2000” cit., p.40

[11]  “Presenza armena in Italia, 1915-2000” cit., p.154

[12] “Presenza armena in Italia, 1915-2000” cit., p.166

[13] “Presenza armena in Italia, 1915-2000” cit., p.177

[14] “Armenia oggi. Drammi e sfide di una nazione vivente”, di Simone Zoppellaro corrispondente dall’Armenia per l’Osservatorio Balcani e Caucaso e con prefazione di Antonia Arslan – 2016 Guerini e Associati Editori. Il saggio riporta testi editi ed inediti scritti nel 2015, centenario del genocidio.

[15] “Armenia oggi. Drammi e sfide di una nazione vivente”, cit. p.19 e segg.

[16] “Presenza armena in Italia, 1915-2000” cit., p.177

"I don't know..."

"I don't know..." - Difensore della salute

 

 

“I don’t know…“ 

I costi del dis-ordine.

 

 

 

 

 

 

 

 L’illustrazione è condivisa dalla pagina Facebook di ‘System32 Comics’

 

 

 

 Le semplificazioni di un sistema operativo non sempre sono una buona difesa, e non solo per il sistema stesso. Proprio quella generalizzazione che esigiamo dalla Intelligenza Artificiale – e di cui essa ‘deve’ essere capace a differenza degli umani e soprattutto per poter essere commercializzata, costi-quel-che-costi - è invece il suo tallone d’Achille, anticipazione di un destino di rapidissima obsolescenza.

 L’ingenuità comune, allora - quella diffusamente incline a cercare facilitazioni – ama esporsi : l’ingenuità dunque è in realtà una patologia ed anch’essa comune, anzi antichissima. “I don’t know…”

 Ma finchè agli umani sfugge l’uso della ‘non capacità di generalizzare’, è più facile restare devoti alla paranoia, quella dei Programmatori a cui abbiamo delegato.

 E con l’uso corretto della ‘non capacità’, fugge via anche la preziosa nozione che ogni Programmazione è psichicamente connotata, anche in senso patologico in quanto – a differenza di Dio – essa cerca di occultare la propria identità. E qualche volta vi riesce.

 In Amor vince chi fugge.

 

 

                                         Marina Bilotta Membretti, Cernusco sul Naviglio 27 luglio 2019

 

 

 

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  • 23/01/2021
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