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Akira Kurosawa[1] : la mia vita percorribile.

Screenshot da ‘Kagemusha, il guerriero ombra’, regia di Akira Kurosawa (1980, e vincitore della 'Palma d'Oro' 1980 al Festival di Cannes).

 

 

Seguo Akira Kurosawa nel suo paziente dipanare i nodi ingarbugliati della vita. Un bambino silenzioso che preferisce il disegno, quando inaspettatamente arriva ad entusiasmare l'insegnante che lo nota ed anzi propone il suo lavoro alla classe : un episodio che apre al giovanissimo Akira la potenza del racconto per affrontare le mura altissime della coscienza.

Una foto famigliare lo ritrae a pochi anni, a lato del fratello maggiore Heigo che appassionò Akira alla pittura, Van Gogh soprattutto, ed ai primi film in bianco e nero. Ma a differenza di Heigo che dal cinema traeva la malinconica distanza, Akira tornando a casa produceva in proprio riprendendo nel disegno le scene e le storie che lo avevano entusiasmato. In quella foto, Heigo ed Akira precedono la giovanissima e triste madre come a candidarsi eroici samurai. Il padre inespressivo e severo controlla dal centro, intorno stanno gli altri fratelli, sorelle e qualche zio.

Kurosawa è una nobile famiglia di samurai, difficile da raccontare...

Eppure Akira ci prova, prendendo sul serio quell'offerta casuale del disegno che sempre precede la pittura. E che presto Akira sostituirà con le nuove sceneggiature richieste da un cinema nascente. Akira ed Heigo furono dunque alleati prima che concorrenti per offrire tutela alla donna-madre... ??

Chissà se iniziò come possibile missione eroica di un aspirante samurai del cinema la professione di Akira... Ma quando Heigo[2] lo abbandonerà, Akira smetterà di fare l'eroe.

Con quella prudenza che fin dai primi anni lo aveva difeso da un'educazione famigliare pressante ed ineludibile, Akira coltiva in silenzio il suo metodo fatto di applicazione appassionata umile intransigente. Senza abbandonare le sceneggiature dei film che fino all'ultimo curò personalmente, si affaccia ormai inequivocabilmente alla regìa.

Lascia che siano altri a commentare e ad arrovellarsi sul significato e sulle invenzioni che Akira condivide soprattutto con Hitchcock e col Fellini migliore e preferisce invece lavorare sodo per offrire allo spettatore un pensiero che descriva soluzioni individuate persino nel sonno notturno, quando il giorno di un uomo è greve ed angusto nelle tradizioni sociali. L'onirico nei film di Kurosawa non è mai illusione infatti, ma memoria colta da ripescare fin nell'infanzia.

Akira comincia subito con “Una meravigliosa domenica” del 1947, a due anni dalla sconfitta della guerra mondiale, ironizzando senza cattiveria sugli impossibili sogni “diurni”, gravati di pretese insostenibili. E delinea la paura patologica del fallire di un giovane uomo logorato dall'etica sacrificale giapponese, che si ritroverà incapace di costruire una vita insieme con la donna che ha scelto. Al punto da rifiutare qualche utile soldo da investire, che un amico appena arricchito gli offre.

Con “Rashomon” (1950), Kurosawa prosegue imperterrito a sostenere “chi”, di volta in volta egli individua come capace di soluzioni non mortifere. Anche quando ciò non coincide con le pretese della sua nazione a cui forse non piace quell'affacciarsi interessato al cinema U.S.A., nemico antico e mai dimenticato. Akira parteggia qui per la moglie del samurai : lui l'aveva derisa perchè lei aveva ceduto al brigante anziché sacrificare la vita e lei arriva a pugnalarlo a morte.

Kurosawa alza poi il tiro in “Dodès'ka-dèn” (1970), osando rappresentare l'autismo come patologia comune della disperazione che, pur di mantenere la vita, rende “beati” nell'illusione di un sogno continuo. Il giovane disoccupato che si autoassume come immaginario tranviere e la sua religiosissima madre possono continuare a ripetere consolandosi ciò che nella vita “va bene” quando tutto “va male” : il giovane arriva perfino a rimproverare puntigliosamente uno sbadato pedone che “non” vede il binario immaginario sul quale egli cammina. Il film non venne affatto applaudito, nemmeno in Giappone dove lo sforzo governativo era tutto teso a ricostruire le macerie della sconfitta bellica. Ma a Tokyo l'iniziale progresso veniva ostentato nei quartieri di lusso, nascondendo le difficoltà e la malattia psichica stessa nei vicoli fangosi, dove tutto può essere rapidamente rimosso. Davanti all'insuccesso conclamato, Akira parve tentato dalla tradizione sacrificale dei samurai che tuttavia lo trovò “non ancora pronto”[3]. E così fallì il suicidio, salvandosi.

Senza alcuna retorica e con un linguaggio cinematografico che ripercorre il sogno senza mai ricadere nell'infantile, Akira riesce a raccontare, con precisione fotografica, l'umiliazione di un bambino di fronte alla punizione materna per essersi incuriosito del rapporto coniugale[4]. Quasi calcolando la disponibilità dello spettatore all'attenzione, Kurosawa sa parlargli di angoscia come solo Hitchcock sa fare. L'agile Akira introduce quella leggerezza che porta le soluzioni del riscatto imprevedibile, quel “marameo” semplice e risolutivo che fin da bambino gli permetteva di sgusciare via dal sacrificio senza profitto.

Fino a giocare sorridendo con la propria proverbiale prudenza che nella vita più volte gli era venuta in aiuto. E' così in “Rapsodia d'agosto” (1991), uno degli ultimi film del regista ormai ottantenne in cui giocando a nascondino, ai compagni che gli chiedono : “Madakay ?”, cioè “Sei pronto ?” il bambino risponde ogni volta “Madaday !”, cioè : “Non ancora, non ancora, non ancora... !”

Salvando così la vita e sé stesso dal (fantasma del) Samurai.

                                                                                                                 Marina Bilotta Membretti,  Cernusco sul Naviglio 8 agosto 2016

 

 

 

[1]   Ringrazio il critico cinematografico Carlo G.Cesaretti e la Biblioteca civica “Lino Penati” di Cernusco sul Naviglio per il ciclo di incontri “Akira Kurosawa (Tokyo 1910-1998). I mille colori del vivere”, aprile-maggio 2016

[2]    Heigo morirà suicida a 28 anni.

[3]    “Non ancora” è la traduzione del titolo del film “Madadayo-Il compleanno” (1993), dove al compleanno viene assimilata la morte che “non trova pronto” il protagonista.

[4]    “Dreams”/”Sogni” (1990) e specificamente l'episodio “Il matrimonio delle volpi”.

Federico da Montefeltro[1].

La giornata di un vincitore.

In foto: vista mattutina del Palazzo Ducale di Urbino, dimora e sede di governo (1444 - 1482) di Federico II da Montefeltro.

 

 

‘La giornata di un vincitore’ è il titolo che attribuirei a questa opera di Piero della Francesca[2] che ammiravo qualche giorno fa alla Pinacoteca di Brera a Milano. Molti titoli in realtà si sono avvicendati : ‘Sacra conversazione’ [3] oppure ‘Madonna dell’ovo’ oppure ‘Madonna col Bambino e Santi’ ed oggi infine ‘Pala di Brera’, prospettando così un ordine completamento nuovo.

Ho sostato a lungo davanti a Federico da Montefeltro, uomo ‘brutto’ e probabilmente rozzo ma commovente nell’armatura in cui tenta di difendersi o semplicemente di non svelarsi - pur essendo un validissimo guerriero, ed avvezzo fin dall’infanzia a maltrattamenti che un figlio subisce perché nato al di fuori di un nobile matrimonio.

Tuttavia obbediente senza rassegnazione, Federico mantenne memoria di quel po’ d’amore pur ricevuto, così come dei soprusi che lo ferirono senz’altro. Ma l’educazione in monastero gli consentì – peraltro voluta dai famigliari per diffidenza e calcolo - di non rinunciare al suo proprio pensiero, che infatti coltivò attivamente ed in molte direzioni, inclusa la dedizione sincera a Battista Sforza, sua seconda e ri-amata moglie.

Guardandolo bene mi ha commosso il suo profilo, deturpato da un primitivo intervento al naso di chirurgia plastica che gli permise tuttavia l’uso della vista, compromessa gravemente da quell’incidente fra cavalieri : e mi hanno commosso le sue ginocchia piegate, rese più evidenti dalle ginocchiere, poggiate al suo fianco con scrupolo di realtà. Ma soprattutto mi è piaciuto il suo sguardo che non è avido sul Bambino dormiente, ed incontra una meta a cui anche la sposa, in piena autonomia, è rivolta : laddove infatti il bene è comune, luogo reale cioè, che qui viene orientato verso lo spettatore, è davvero l’aldilà di questa opera.

Federico - da vincitore quale lo si ricorda - riconosce qui il potere di chi non ha Potere, né si arma del suo potere per ridurre l’uomo in suo potere. Lei lo onorò con molti figli che lui, fino a quel matrimonio si procurava altrove, ma allontanandosene faticosamente. Una intimità che Piero della Francesca testimoniata con un particolare raffinatissimo, quella preziosa stoffa di gusto fiammingo, qui in oro ed in rosso, di cui Federico era intenditore, e che avvicina l’abito di lei al mantello di lui. Ecco un ‘coniugio’, mi sono detta ! Vincitore è il coniugio infatti.

 

Marina Bilotta Membretti, Cernusco sul Naviglio – 4 novembre 2015

 

 

[1] Federico II da Montefeltro (1422 – 1482), conte e duca di Urbino, fu condottiero italiano, capitano di ventura e famosissimo signore rinascimentale. La ben nota biblioteca di Federico, unica a quell’epoca per vastità e prestigio, venne infine rilevata dal Papa Alessandro VII Chigi che la salvò dalla distruzione ed è tuttora parte della Biblioteca Apostolica Vaticana.

[2] Piero della Francesca (1416-1492), pittore e matematico italiano riuscì ad armonizzare, nella vita e nelle opere, i valori intellettuali e spirituali del suo tempo. Fu amico di Federico da Montefeltro.

[3] Databile intorno al 1472, questa tempera ed olio su tavola di Piero della Francesca ricevette in seguito alcuni completamenti da parte di Pedro Berruguete, altro pittore di corte.

Vivian Maier: per caso.

 

Invito a conoscere la storia di Vivian Maier, di cui io stessa sono venuta a sapere per caso, e che però ho potuto incontrare nella bella e finora unica mostra allestita in Italia presso il Museo MAN[1] di Nuoro, elegante palazzo dove sono alloggiate diverse esposizioni, e che documenta la sobria e colta raffinatezza dell’800 nuorese.

La mostra sul lavoro di Vivian Maier si snoda infatti fra alcune sale con i caratteristici soffitti ad arco, collegate dallo scalone in marmo su tre piani : offre una ricca e selezionata raccolta della incredibile quantità di foto scattate dalla prima ‘American woman-street photographer’[2] e rinvenute del tutto casualmente dal giovane e intraprendente John Maloof[3] .

Vivian Maier, nata negli Stati Uniti nel 1926 e tornata bambina in Francia dove risiedeva la famiglia della madre, rientrò autonomamente negli Stati Uniti nel 1951 dove cercò subito lavoro come ‘nanny’, governante per bambini presso famiglie della ricca borghesia. In un certo numero di foto Vivian riprende le suore, forse non del tutto ironicamente, perchè suora in inglese si scrive ‘nun’ e si pronuncia ‘nan’, molto vicino a ‘nanny’, cui Vivian in qualche modo si paragonava. Ma furono sufficienti le burrascose vicende sentimentali di suo padre e sua madre, da lei commentate con cinismo in diverse foto, ad inchiodarla definitivamente ed esclusivamente ai bambini ?

John Maloof si trovò sbigottito di fronte ad una imprevista, enorme quantità di scatti spesso ripetuti, flashes e chilometri di pellicola impressionata, accatastati disordinatamente da Vivian nei  bauli del famoso garage[4] rilevato dopo la sua morte.

Mai Vivian Maier tentò di rendere pubblica la sua passione che restò segreta persino ai suoi  datori di lavoro. Dicono di lei che nel tempo libero, previsto dal contratto di lavoro, la si vedeva uscire con la sua ‘Rolleiflex twin-lens reflex’ appesa vistosamente al collo. E rientrare poi, ore dopo, oppure terminato il periodo di ferie, tale e quale a riprendere il servizio : dignitosa, altissima e silenziosa, con un che di rigido ed assolutamente non sensuale nei movimenti - i bambini ridevano di nascosto e ben lontani da lei, ora che sono adulti lo ammettono.

Gli autoritratti di Vivian Maier sono numerosi ed inquietanti, selfies di prima generazione, ai quali la mostra di Nuoro dedica una sala. Lei manda avanti la sua Rolleiflex ma lo spettatore è colpito dalla difficoltà di attribuire con sicurezza un sesso, ed un pensiero : noia, diffidenza, curiosità ?

Vivian Maier arrivò a stampare pochissime foto - forse per motivi economici ma chissà – e la maggior parte di queste sono il risultato del lavoro accuratissimo di John Maloof  che ne ha esaltato il valore, così come di sé stesso quale prezioso segugio di artisti mai conosciuti.

E’ ragionevole ritenere che Vivian Maier morì insoddisfatta dai risultati del suo lavoro di fotografa,  gelosa fino all’ultimo dei quintali di pellicole che nascondeva e di cui nemmeno i datori di lavoro conoscevano l’esistenza, pur avendole concesso in uso-deposito quel garage che lei aveva implorato per i suoi bauli, con un senso del ridicolo che lei stessa contribuiva a farsi attribuire.

Non le riuscì di immortalare in modo convincente la miseria, l’attimo in cui la soddisfazione sfugge cedendo alla rassegnazione : eppure aveva tentato in tutti i modi. Ma, pur senza mai tentare nuove  strade professionali, con risentimento restando incollata alla famiglia presso cui lavorava, “… quello scatto le bastava…”, come osserva un visitatore davanti alle foto che comunicano un voyeurismo difficile da ammettere verso prerogative da cui Vivian Maier si riteneva esclusa.

“I bambini l’amavano…”, commenta una visitatrice davanti ad una foto in cui Vivian tiene ben stretti per mano i due fratellini a lei affidati. I quali tuttavia, intervistati oggi ormai adulti, ammettono con tono asciutto e rispettosi della telecamera che li riprende : “ She was good…” Oggi finalmente possono essere grati a Vivian di qualcosa, anche solo di un breve inaspettato successo per averla conosciuta come ‘nanny’. 

Con una tenacia impassibile che scivolava nell’ostinazione, Vivian arrivò a completare il suo discreto corredo, la costosissima attrezzatura indispensabile allo ‘street photographer’ degli anni ‘50. Come lei stessa confessò sobriamente, Vivian preferiva di gran lunga la metropoli americana con i suoi squilibri, i suoi contrasti, le sue facili ostentazioni : le piacevano i poveri e soprattutto le loro sconfitte.

Usando treni e mezzi pubblici si spostava altrove, ma solo per fotografare : al mare per esempio, e anche all’estero, riuscendo ogni volta ad avvicinare i soggetti che sceglieva ad una distanza talmente ravvicinata da farci intendere quanto spesso un serial killer sia capace di conquistarsi il favore delle vittime prescelte.

 

Marina Bilotta Membretti, Cernusco Sul Naviglio, 27 settembre 2015      

                                                                                               

 

[1] ‘Vivian Maier – Street photographer’ 10 luglio – 18 ottobre 2015, Museo D’Arte MAN di Nuoro, Via Sebastiano Satta 27

[2] ‘Street photography’ è un genere fotografico, comparso verso la fine del XIX secolo e fino alla fine degli anni ’70 quando progressivamente si affermarono le macchine portatili, ed intende riprendere luoghi pubblici e soggetti in situazioni reali; ‘strada’ indica genericamente laddove è visibile l’attività umana; l’inquadratura ed il tempismo sono aspetti chiave di questo genere di fotografia.

[3] John Maloof (1981, Chicago – Illinois) è arrivato al successo col film – documentario ‘Finding Vivian Maier’ che ha ottenuto un riconoscimento nel 2015 : appassionato di storia e di giornalismo, iniziò lavorando come rigattiere col padre e col fratello, ma specialmente John rivelava un notevole fiuto per gli affari, ammettendo anzi che fu il suo talento a guidarlo con sicurezza nell’individuare ed acquistare i bauli della Maier ad un prezzo irrisorio (380 dollari nel 2007), trasformando poi la pallida vita di Vivian in un successo.

[4] ‘Finding Vivian Maier’ (2013) è il fim diretto da John Maloof e Charlie Siskel. John Maloof è anche editor del libro ‘Vivian Maier : Street Photographer’ e curatore dell’opera di Vivian Maier.

Se ‘La Grande Madre’[1] va a Palazzo Reale.

 

 

La Grande Madre è una ipotetica divinità femminile e primordiale, presente in quasi tutte le mitologie, attraverso cui si manifesta la Terra e la capacità di generare e nutrire : pare anzi che la Grande Madre riguardasse specificamente le prime popolazioni nomadi, che vivevano di caccia e raccolta di frutti selvatici. Tuttavia nella elegante cornice delle sale al piano nobile di Palazzo Reale ‘La Grande Madre’ non offre nutrimento che non sia di difficile deglutizione e digestione :  “Messaggi un po’ troppo stratificati…!” ho sentito commentare. Le Grandi Madri esposte sono opera di donne, artiste contemporanee e viventi, anche se qualcosa proviene da Surrealiste e Futuriste : che tuttavia poco si interessano di nutrimento, forse.

Nel lunghissimo video ‘Grosse fatigue’[2] e vincitore di un Leone d’Argento al Festival di Venezia, si accenna distrattamente ai gameti, presenti perfino nei rettili primordiali : l’uomo è assente. Ed i bambini della mostra sono affamati.

I bambini di Nathalie Djurberg (1978, Svezia) per esempio[3]. Nathalie sta avendo successo anche qui a Milano, dove pare che le Gallerie d’Arte se la contendano. I bambini del suo video rincorrono ferocemente la povera donna fino a rientrare nel ventre materno come fallimento evidente di un nutrimento malandato. Non sarebbe più semplice accorgersi in tempo che avevano fame, non solo di cibo ma anche di pensiero e di parola ?

A questo video accosto quello di Ragnar Kjartansson (Rejkjavik, Islanda) con la ripetizione odiosa di una donna elegante, anziana e robusta che sputa con disprezzo addosso ad un indifferente giovane uomo in giacca e cravatta, forse anch’egli sprezzante di lei ma già incline all’odio malinconico : il titolo un po’ ingenuo è ‘Me and my Mother’, dove la maiuscola per ‘Me’ è davvero spropositata. Subìre o uccidere, rinunciare o aggredire : non abbiamo già un po’ troppo a lungo assistito a questa pantomima quotidiana, dal servilismo alla guerra civile ? Già più di cinquanta anni fa Carlo Emilio Gadda ci aveva abbondantemente delucidato sul figlio-vittima che, quand’anche arrivasse a conoscere la verità, sarebbe il suo massimo traguardo perché nulla egli potrà cambiare[4].

Da ‘La Grande Madre’ ecco un flash su Virginia Woolf[5], che si offre al fotografo nell’abito indossato dalla madre morta da pochi giorni, un accenno di sorriso indefinibile le piega il labbro sottile : Virginia aspettava – ci dicono - da tempo il trionfo di quella sostituzione, in attesa della quale ritenne di essere impedita dal vivere di vita propria.   

Ed ecco una piccola foto che ritrae Sigmund Freud con la madre Amalia nel 1925[6], mentre un’altra foto - che Freud stesso esponeva nell’anticamera del suo Studio di Londra - raffigura Edipo il quale, risolvendo l’enigma mortifero della Sfinge[7], diventa re di Tebe e sposa la regina Giocasta, liberando così anche la città dal mostro di una Grande Madre. Ma come sappiamo, Edipo e Giocasta pagano salato l’improvviso rimorso per la loro soddisfazione : una non-soluzione il rimorso infatti, che fa danno proprio quando viene rimosso.

Ma è dalla giovane Slovakia, entrata nella UE poco meno di vent’anni fa, che proviene qualcosa di interessante e provocatorio da parte di un giovane artista, e padre quarantenne : Roman Ondak[8] propone una donna reale e presente, che qui insegna a camminare al suo bambino di circa un anno. Pare che Roman abbia osservato la moglie mentre insegnava a muovere i primi passi al loro piccolo figlio, leggendo la soddisfazione del bambino che si sentiva accompagnato ad entrare nella vita indipendente degli adulti. Ed ha saputo leggere anche nella moglie la soddisfazione per collaborare alla indipendenza del figlio : ciò che sicuramente ha richiamato l’artista e l’uomo, giacchè la vita reale è tutto un altro mondo, proprio quello in cui ogni bambino desidera entrare.

Nessuno infatti vuole essere riportato ‘dentro’.

 

                                         Marina Bilotta Membretti, Cernusco Sul Naviglio - 18 settembre 2015

 

 

[1] ‘The Great Mother’,  Palazzo Reale – Milano dal 26.08 al 15.11.2015 : mostra ideata e promossa da Fondazione Nicola Trussardi insieme a Comune di Milano e ‘Palazzo Reale per Expo in città 2015’. A cura di Massimiliano Gioni.

[2] ‘Grosse fatigue’, Camille Henrot (1978 vivente, Parigi) 2013 Leone d’argento Venezia, Sala 15.

[3] ‘It’s the mother’, video di Nathalie Djurberg, Sala 19

[4] ‘La cognizione del dolore’, Carlo Emilio Gadda(1963) Garzanti editore 2008

[5] Virginia Woolf, Sala 29.

[6] ‘Sigmund Freud con la madre Amalia’, 1925; ‘Edipo risolve l’enigma della Sfinge’, J. A. D. Ingres 1808-Londra Studio di Freud, sala 4.

[7] Mostro mitologico col corpo di donna, testa di leone ed ali di uccello che divorava chiunque entrasse a Tebe senza aver indovinato un irrisolto enigma : “Chi, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadrupede, bipede, tripede ?” 

[8] ‘Teaching to walk’, Roman Ondak, Zilina-Slovakia 2002, sala 14

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