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“Tu chiamale se vuoi… Marie!”

Gustav Mahler[1]e la prudenza di Freud.

Illustrazione originale di Stefano Frassetto[2]

 

 

 

“Abissi e vertigini”[3], a volte impenetrabili come nella Sinfonia n°2, a volte invece esaltanti ed irraggiungibili : Gustav Mahler chiamò Sinfonie le sue incontenibili emozioni.

Direttore d’orchestra[4] apprezzatissimo, sebbene non popolare fra gli orchestrali a causa del suo perfezionismo sperimentale, riuscì giovanissimo – e già talentuoso ed infaticabile - a contrastare il padre Bernard - uomo aspro e purtroppo violento in famiglia[5], più che nella bottega di generi alimentari per la quale aveva ottenuto licenza nel 1860 - ed a dedicarsi con profitto agli studi musicali che adorava e da cui Bernard, che coltivò e finanziò il talento di Gustav, pregustava orgogliosi riconoscimenti.

Secondogenito con quattordici fratelli, molti dei quali morirono nella prima infanzia e ritenendosi un sostegno per la madre Marie, umiliata e triste, il giovane Gustav aveva presto imparato, davanti agli scoppi collerici del padre ad estraniarsene, inventandosi un altrove dove la musica “apriva le porte di un mondo fatato”[6] e ad altri non accessibile, come nel celebre ‘Adagio’ della Sinfonia n°10.

Raggiunto il successo e quell’agiatezza insperata che gli consentivano di condurre non solo una vivace vita intellettuale ed affettiva a Vienna, ma anche di trascorrere lunghe e laboriose estati nella deliziosa Maiernigg, sul lago Wörthersee dove volentieri nuotava o remava, Mahler non si allontanava mai da quel dolore così prolifico per le sue produzioni : lavorava in un minuscolo cottage di pochi metri quadrati che si era fatto costruire nel bosco dietro la casa e che ancora oggi è proposto ai visitatori.

Aveva cinquant’anni ed un curriculum invidiabile alle spalle, costruito nota per nota, concerto per concerto, opera per opera senza risparmio di forze né di affetti. La giovane sposa Alma, che dal latino si traduce ‘anima’ e che di secondo nome faceva Marie come la infelice madre di Gustav, era al tempo brillante e splendida violinista, e certo molti rivali gliela invidiavano : entrò nella severa casa del musicista, non ultima di un numero imprecisato di relazioni, candide ed appassionate da parte di Mahler, accettando inizialmente le abitudini solitarie del pensoso compositore.

Nel 1902, novello sposo, aveva terminato di musicare cinque poesie del tedesco Friedrich Rückert e con speciale passione quella ormai nota come : “Ich bin der Welt abhanden gekommen…”, ‘io sono perso al mondo… e riposo in un regno di pace’ (n.d.r.) che riporta un mondo immaginario ma possibile nel quotidiano, anche se riservato ai migliori intelletti.

Immedesimandosi in quella riconciliazione del dolore profondo a cui non rinunciava mai per riuscire a sublimarlo goccia a goccia in una levitazione vivente da cui il corpo poteva scivolare a eco lontana, egli sapeva ottenere una musica che, anche attraverso l’uso degli archi e del frequente tempo di ‘marcia’, poteva risultare persino ipnotica.

Prostrato fisicamente dalla malattia, nel 1910 “Mahler chiese consiglio al neurologo viennese Richard Nepallek, il quale gli suggerì di consultare Sigmund Freud[7].

Freud si trovava a Leyden, in Olanda. Mahler gli telegrafò , e Freud gli rispose invitandolo a venire subito.

Allora Mahler, timoroso del responso, trovò un pretesto per non andare, e così via per tre volte. Finalmente, Freud gli scrisse che l’ultima occasione possibile era la fine d’agosto, poiché egli dopo sarebbe partito per la Sicilia.

Mahler si mise in viaggio di malavoglia, scrivendo ad Alma lungo il percorso lettere da adolescente in ebollizione : del resto, rendendosi perfettamente conto di questa loro qualità, con autoironia.

Freud parlò con lui nel pomeriggio del 26 o 27 agosto. Conversarono per quattro ore, passeggiando per Leyden.

Freud rassicurò Mahler : gli spiegò che la sua età non era un ostacolo, poiché Alma cercava in lui… il padre perduto troppo presto. Anche lui, d’altra parte, cercava in Alma la madre. Quando Mahler gli disse che sua madre si era chiamata Marie, e che Marie era il secondo nome di Alma, decise che Mahler soffriva di ‘Marienkomplex’…

Gustav ritonòr a Toblach più disteso ma… Alma era diventata definitivamente il mito di Alma, ed il loro amore coniugale traduceva la propria realtà terrestre in una proiezione bellissima ed irreale… ”[8] Secondo quanto riferì Freud dopo quella conversazione, Gustav Mahler conosceva bene la psicoanalisi[9].

Ma non la praticò mai.

 

                                      Marina Bilotta Membretti, Cernusco sul Naviglio 7 agosto 2020

 

 

[1] Gustav Mahler (1860-1911), austriaco di famiglia ebraica fu musicista notevole, compositore e direttore d’orchestra.

[2] Stefano Frassetto è nato a Torino nel 1968. Dopo la laurea in Architettura al Politecnico di Torino, ha iniziato come vignettista e disegnatore per alcuni giornali locali. A metà anni novanta ha cominciato a pubblicare anche in Francia, prima col mensile ‘Le Réverbère’ e in seguito col quotidiano ‘Libération’ : passato a sviluppare l’attività di fumettista col personaggio di Ippo per ‘Il Giornalino’ e poi la striscia ‘35MQ’ per il quotidiano svizzero ‘20 Minuti’, con l’anno 2000 fa il suo esordio su ‘La Stampa’ come ritrattista per le pagine culturali e per l’inserto ‘Tuttolibri’, poi per il settimanale culturale ‘Origami’. Oggi è anche ritrattista e illustratore presso il quotidiano svizzero ‘Le Temps’.

[3] “Mahler. La musica tra Eros e Thanatos”, Quirino Principe 2002 / Bompiani, p.608

[4] Nel 1897 fu chiamato a dirigere la ‘Imperial Regia Opera di Corte’, oggi ‘Wiener Staatsoper’ : per poter accettare l’incarico decise di farsi battezzare, convertendosi al cattolicesimo. Dal 1909 al 1911, anno della sua morte, fu direttore musicale della ‘New York Philarmonic’, ottenendo vasto consenso e successi concertistici.

[5] “Mahler. La musica fra Eros e Thanatos”, cit., pp.86-89

[6] “Mahler. La musica fra Eros e Thanatos”, cit., p.109

[7] Freud aveva all’epoca cinquantaquattro anni, solo quattro più di Mahler ed aveva già pubblicato, fra gli altri, “Psicopatologia della vita quotidiana” (1901) e “Il motto di spirito ed il suo rapporto con l’inconscio” (1905). Ma per Mahler entrambi soprattutto erano ebrei di origine e viennesi di adozione, ciò che favorì la richiesta di quel consulto da parte del musicista.

[8] “Mahler. La musica tra Eros e Thanatos”, Quirino Principe cit., pp.775-776

[9] “Vita e opere di Freud”di Ernst Jones (1879-1958, neurologo e psicoanalista britannico : fu protagonista nell’accogliere in Inghilterra gli psicoanalisti perseguitati dai nazisti; fra il 1920 ed il 1939 fondò e diresse ‘International Journal of Psycho-analysis; fra il 1932 ed il 1949 fu presidente della ‘International Psychoanalytical Association’). Traduz.di A.Novelletto e M. Cerletti, Vol. II, Ed. ‘Il Saggiatore’ pp.107-108

 

La guerra in testa “Astarte”, di Andrea Pazienza .

“Astarte”, di Andrea Pazienza[1].

 

 

Da “Astarte”, di Andrea Pazienza – ‘Fandango Libri’ 2010

 

 

 

“Astarte” è un sogno ? Netto, impressivo, malinconico.

Eppure veder disegnare Andrea Pazienza è un piacere[2]. Azzardo : è finanche una consolazione pensare che Paz, come si lasciava chiamare, abbia almeno assaporato un’ombra di soddisfazione, pur se tratta da fogli bianchi e da grandi muri. Guardandolo, sembra persino facile seguire la sua mano improvvisamente sicura e intenta ricavare un cavallo imbizzarrito, un uomo armato, un orso inferocito.

Astarte è il cucciolo da combattimento di Annibale, eccezionale stratega africano protagonista della Seconda guerra punica (218 – 201 a.C.) : Paz, che è  reduce da un percorso di disintossicazione se ne appassiona al punto da voler farne una storia spettacolare. Nel 238 a.C. Annibale era partito giovanissimo, a nove anni di età da Cartagine[3] col padre, generale Amilcare Barca ed il fratello minore Asdrubale, a capo di un poderoso esercito per sfidare Roma che con la sua potenza li minacciava; restò in Italia quindici lunghissimi anni, arrivando ad attraversare con gli elefanti africani le Alpi innevate e preoccupando i Romani stessi, battuti in Italia più volte prima di impegnarsi a fondo ed arrivare ad annientare Cartagine. “Storia di Astarte” racconta quindi i preparativi e la battaglia del 217 a.C. sul Lago Trasimeno, vinta da Annibale sfruttando anche le tipiche nebbie che avvolgevano il luogo : da questa sconfitta i Romani decisero di cambiare tattica e struttura nel loro esercito. E già era tradizione guerresca, per ambo i contendenti liberare quegli enormi cani, i molossi dell’Anatolia che affascinavano Paz, armati di una spada letale per attaccare di sorpresa i cavalli e le prime file schierate.

Eppure quel cucciolo di gigante che è Astarte fa simpatia, persino nella ferocia della battaglia a cui da innocente viene inviato. Fa simpatia perché il giovanissimo cane paziente obbedisce e, a differenza degli umani che  la guerra se la inventano apposta ogni volta, Astarte fa solo quello per cui viene addestrato… “Io feci ritorno alle gabbie – è Astarte a parlare, esausto dopo l’assalto, nell’ultima tavola di Andrea Pazienza – dove erano già Baal e alcuni altri cani. Il precettore contento ci rifocillò e ci coccolò. Mentre la battaglia ancora infuriava, io e Baal ci addormentavamo vicini per l’ultima volta…”

La storia avrebbe dovuto concludersi a Zama con la prima sconfitta di Annibale e la morte di Astarte ma invece, a sorpresa, la narrazione s’interrompe, conclusa la battaglia vittoriosa. Come conciliare l’umano, infatti e ricondurlo nella storia ?

Alcuni giorni dopo, la sera del 16 giugno 1988 Andrea Pazienza muore nella bella casa in Toscana dove viveva con la seconda moglie ed i due cani.

“Il fumetto è evasione… del resto la parola evasione è una bellissima parola… “ – Roberto Saviano ricorda le parole di Paz nella ‘Prefazione’. Per poterlo raccontare infatti, Astarte deve un po’ di più avvicinarsi all’autore e l’autore un po’ di più entrare in quel cucciolo di gigante così lontano da lui, così mansueto e terribile, così spensierato e, finalmente, crudele.

“ …Resta la calligrafia di un bambino”, ammette Paz con ritrosia commentando i suoi scritti in una intervista del 1987[4]. Ma il segno grafico, no : non era quello di un bambino. “Non vorrei sbagliare…” dice ancora, anzi lo ripete tre volte e sembra eccessivo, perché semplicemente si tratta di qualcosa che non ricorda davanti all’interlocutore. “Non vorrei sbagliare…” e poi ancora: “Non vorrei sbagliare…”

“…Per noi cani è difficile entrare nei sonni degli uomini, io sono riuscito ad entrare nel tuo perché sono un cane molto forte. E tu evidentemente, un uomo molto debole…”, dice Astarte in una delle prime tavole allo stesso Andrea Pazienza, che qui si è auto-raffigurato brutto, col naso a patata ed uno sguardo qualunque che lui non aveva nella realtà.

Fulvia Serra, ex direttore di ‘Linus’ a cui Paz collaborò, commenta[5] la capacità di Andrea Pazienza di aver saputo cogliere le tensioni, i tormenti dei giovani, tanto da persistergli tuttora intatto l’apprezzamento : eppure, proprio ciò che suonerebbe onore verso Paz ne condensa invece una specie di condanna, una pressione da più parti, mai collettiva o innocente, che avrebbe richiesto una difesa adeguata ma purtroppo non agìta.

Avrebbe rivoluzionato il fumetto in Italia, secondo alcuni : secondo altri una capacità addirittura ‘genetica’ di disegnare gli avrebbe reso superfluo l’apprendere, che Paz invece non disdegnava sebbene fosse facile alle distrazioni. Voci faticosissime, invadenti, costose.

A lui coevo, emergeva negli anni ’50 quel ‘chicken game’[6] in cui il ‘pollo’ era chi ‘sceglieva di salvarsi’, saltando via dalla macchina in corsa. E gli esperti sanno tuttora di poter prevedere abbastanza da chi è sensibile a lusinghe e facili promozioni.

La biografia di Andrea Pazienza è una iperbole rapidissima ed esponenziale, fra il 1977 ed il 1987 i suoi lavori erano attesi e richiesti da committenti molteplici ed ansiosi : questo giovanissimo autore timido, perfezionista, che si definiva ‘pigro’ passò invece molto in fretta attraverso il cinema[7], l’insegnamento[8], il giornalismo[9]. Ma Paz offriva solo laddove c’era una sfida cruenta da raccogliere, un duello che facesse sanguinare copiosamente, un corpo-a-corpo coscienzioso e lacerante.

Astarte è un mostro con cui Andrea Pazienza avrebbe, forse, voluto fare pace : ma nessuna pace è possibile, mantenendo il mostro.

Un totem, infatti non è un  nemico qualunque.

 

                                           Marina Bilotta Membretti, Cernusco sul Naviglio 20 luglio 2020

 

[1] “Astarte”, ‘Fandango Libri’ (2010) da “Storia di Astarte” (1988) di Andrea Pazienza, Prefazione di Roberto Saviano.

[2] ‘Fumettology’, 23 ottobre 2014 – Rai4

[3] “Vite degli uomini illustri”, Cornelio Nepote Cap.II

[4] Intervista 4 aprile 1987 di Carlo Romeo, direttore di TeleRoma56, riproposta anche da Rai3 qualche anno fa.

[5] Andrea Pazienza aveva 21 anni nel 1977, essendo nato nel 1956.

[6] “…In ‘Gioventù bruciata’ (1955) un gruppo di teen-agers a Los Angeles guida l’auto verso la scogliera, vince chi salta fuori dall’auto per ultimo”, p.85 “Calcoli morali. Teoria dei giochi, logica e fragilità umana” di Lazlo Mero - Ed. Dedalo Bari 2012.

[7] Di Andrea Pazienza è il manifesto per il film di Federico Fellini ‘La città delle donne’ (1980).

[8] Nei primi anni ’80 insegnò alla ‘Libera Università di Alcatraz’ (Gubbio-PG), diretta da Jacopo Fo.

[9] Nel 1980 fondò il mensile ‘Frigidaire’, a cui collaborò anche l’amico Tanino Liberatore, già compagno nel Collegio che entrambi frequentarono a Pescara : per ‘Frigidaire’ Andrea Pazienza creò il personaggio di Zanardi, assolutamente negativo ma che Paz riteneva suo ‘alter ego’.

 

 

 

“Sigmund… que c’est Freud l’Amur!"

Sigmund Freud, ‘Lettere alla fidanzata’ (1883)

 

Illustrazione di Stefano Frassetto[1] per TutorSalus.net Il quadro sullo sfondo è ‘Il Cristo del tributo o della moneta’ (1568) di Tiziano Vecellio (ora a Dresda, ‘Gemaeldegalerie’)

 

 

 

“Amore mio caro,

(…) Un altro quadro mi ha incantato, il ‘Cristo del tributo’ di Tiziano, che conoscevo già ma senza averlo notato particolarmente. Questa testa di Cristo, mia cara, è la sola verosimile che possiamo pensare avesse un tal uomo. Mi è sembrato, anzi, di dover credere che egli fosse stato davvero così importante, perché la sua rappresentazione è così riuscita. E in tutto ciò niente di divino, un nobile volto umano assai lontano dalla bellezza, e severità, interiorità, profondità, una mitezza superiore, una passione profonda; se tutto ciò non si trova in quel quadro, allora non esiste la fisiognomica. L’avrei portato volentieri via, ma c’era troppa gente: inglesine che copiavano, inglesine che stavano a sedere e parlavano sottovoce, inglesine che camminavano e guardavano. Dunque me ne sono andato commosso…”

Sigmund Freud, ‘Lettere alla fidanzata’ 20.12.1883

 

 

                                                              Marina Bilotta Membretti, Cernusco sul Naviglio domenica 14 giugno 2020

 

                                                                                  

 

[1] Stefano Frassetto è nato a Torino nel 1968. Dopo la laurea in Architettura al Politecnico di Torino, ha iniziato come vignettista e disegnatore per alcuni giornali locali. A metà anni novanta ha cominciato a pubblicare anche in Francia, prima col mensile ‘Le Réverbère’ e in seguito col quotidiano ‘Libération’ : passato a sviluppare l’attività di fumettista col personaggio di Ippo per ‘Il Giornalino’ e poi la striscia ‘35MQ’ per il quotidiano svizzero ‘20 Minuti’, con l’anno 2000 fa il suo esordio su ‘La Stampa’ come ritrattista per le pagine culturali e per l’inserto ‘Tuttolibri’, poi per il settimanale culturale ‘Origami’. Oggi è anche ritrattista e illustratore presso il quotidiano svizzero ‘Le Temps’.

 

 

Ricostruire la città, un lavoro in tre.

Screenshot dal film ‘The hurt locker’ di Kathryn Bigelow (U.S.A. 2008): il bambino Beckam riesce a parare un calcio di rigore, vincendo la scommessa col sergente americano Jones.

 

 

 

 

Ricomincio da Petra[1], città antichissima mai dimenticata, anche se oggi i turisti ci vanno in visita con ‘tour’ organizzati che raccontano anche quello che non verrebbe in mente di chiedere.

In una pausa di lavoro mentre si girava “The hurt locker”[2], a Petra con altri della ‘troupe’ è andato anche l’attore Guy Pearce, il sergente Matt Thompson, e primo artificiere E.O.D.[3] ad entrare in scena. Ammette con sorpresa : “Qui la gente ti guarda, non perde nulla di quello che fai… Da noi in Occidente c’è disinteresse.”[4]

Il lavoro di un tecnico E.O.D. è apprezzato fra i militari, ma molto anche da chi laggiù ci abita e che le bombe se le ritrova letteralmente in mezzo alle gambe uscendo per strada, sotterrate appena da vecchio asfalto smangiato e da ciottoli di pietra : ma nello stesso tempo è un lavoro combattuto, razionalmente e con Coscienza da chi quelle bombe vuole che esplodano davvero, e chi c’è c’è!! ‘Maledetto il Paese che ha bisogno di eroi’ è l’inquietante sottotitolo del film, ed un tecnico E.O.D. non è un eroe, infatti.

“Volevo descrivere il disordine della guerra… “, dice Kathryn Bigelow, regista intelligente e capace secondo gli stessi attori del film, ed anche prima donna in assoluto premiata con l’Oscar nel 2010 come migliore regista. “E volevo ricostruire ‘quella’ passeggiata, di un uomo solo che va a disinnescare la bomba, in mezzo alla città. Volevo che lo spettatore facesse con ‘lui’ quella passeggiata… Se ci sono riuscita, era questo il mio traguardo.”

“Ho potuto farmi appena un frammento di idea di un E.O.D.” - confessa Jeremy Renner, che nel film è il sergente artificiere E.O.D. William Jones - “Ho scritto pagine e pagine - dice - per entrare, per poter capire… A che cosa serve il cinema se non a provocarti un pensiero o, meglio ancora, più pensieri anche in conflitto, che non avevi entrando, prima del film ? Oppure paghi 11 dollari solo per divertirti, ed esci come prima… ” Il film ci conduce attraverso una storia-cronaca surreale e volutamente realistica ma mai facile, sadica.

Beckam è il bambino da cui il sergente Jones acquista al mercato i video-giochi per distrarsi dopo una missione. “…Mi chiamo Beckam”[5], gli risponde infatti con la spavalderia di chi, già a dodici anni sa che al ‘nemico’ non bisogna mai, ‘mai’, dare le proprie generalità : accetta la scommessa di Jones e vince i cinque dollari promessi per parare quel calcio di rigore.

Ed è Beckam stesso ‘the hurt locker’, ‘il custode di ciò che fa male’ e che per i militari americani è anche la cassetta in cui restano gli oggetti da restituire alla famiglia quando un soldato muore.

Beckam, il bambino nelle mani dei ‘suoi’ scaltri adulti, è ormai agonizzante infatti quando Jones e la sua squadra lo trovano su un improvvisato tavolo operatorio in un capannone abbandonato : qualcuno dei ‘suoi’ gli ha malamente inserito l’ordigno nel piccolo petto e lui sta morendo, dissanguato ed inutile alla Causa, perché anche ‘quella’ bomba verrà disinnescata dal ‘nemico’ artificiere. Ma Jones, dopo ‘questa’ missione non riesce a ripartire.

Da solo, per strada s’immagina di riportare il bambino alla famiglia – che non c’è : o almeno a ritrovare chi ha voluto trasformarlo in un corpo-bomba, come lo chiama lui stesso. E invece telefona alla moglie che gli risponde dagli Stati Uniti con in braccio il loro bambino di pochi mesi… Non riesce ad articolare parola, ma è la voce della moglie, è la ‘sua’ casa, è qualcosa.

Il mercante sudicio lo lascia davanti ad una casa borghese, arredata all’occidentale : Jones entra come un ladro e si trova di fronte il padrone di casa, elegante, professore dal nome incomprensibile, che dice di conoscere molte lingue ed invita il sergente americano ad accomodarsi, è un ospite sì ? Ma ‘di Beckam no, non sa niente…’

Nella sua cassetta sotto la branda, insieme a frammenti degli ordigni disinnescati - ottocentosettantasei ne aveva contati – il sergente americano conserva anche l’anello del matrimonio. “Lei è fedele…” confessa ai compagni che gli chiedono.

E lei è anche l’unica a cui, tornato a casa negli Stati Uniti dopo la missione che non lo obbliga a tornare laggiù può dire : “Hanno pochi artificieri…”. E lei, di nuovo, capisce.

Se la guerra è una droga come si legge nei commenti ufficiali del film, qui sono due i linguaggi ed i messaggi offerti allo spettatore, uno dei quali però – e davvero grave – può continuare a rimanere criptato, rimosso o volutamente incomprensibile a quanti nemmeno avranno applaudito perché la storia è poco sensazionale poco catastrofica poco emozionante…

Ed è che la guerra è consolatoria, la vera ‘droga’ consolatoria di quanti non fanno un passo per costruire la pace nelle proprie vite ed ai quali una città, e la gente che ci vive non interessano, se non come oggetti da tenere, o di cui disfarsi.

Le mani pensano, infatti : nessun umano, nemmeno artificiere esperto potrà mai essere un robot.

                                                           

                                                                                                     Marina Bilotta Membretti, Cernusco sul Naviglio domenica 7 giugno 2020

 

 

 

[1] Petra, ‘La Variopinta’ come era chiamata anticamente per i colori vivaci dei suoi strati di roccia, si trova tuttora in Giordania, a sud di Amman : al centro di una vasta zona desertica dove l’unica acqua è di origine piovana, possedeva una rete idrica eccezionale di cisterne e canali scavati nel sottosuolo che i Romani usarono come strumento di pressione per arrivare a sottometterla. Fu abbandonata nell’VIII secolo e ‘riscoperta’ solo nel XIX secolo. Della città di Petra si parla nei ‘Manoscritti’ di Qumran’, fra le più antiche copie superstiti dei libri biblici (il 40% dei documenti identificati) che risalgono al periodo 150 a.C.-70 d.C. : ritrovati in Cisgiordania solo fra il 1947 ed il 1956 essi testimoniano del tardo giudaismo, cioè della Civiltà ebraica successivamente alla distruzione del secondo Tempio, che fu già ricostruzione del tempio di re Salomone.

[2] Presentato nel 2008 in anteprima a Venezia in occasione della ‘Mostra internazionale d’arte cinematografica’, ‘The hurt locker’ ha vinto nel 2010 ben sei Oscar come miglior film, migliore regìa (Kathryn Bigelow), migliore montaggio, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro, migliore sceneggiatura originale (Mark Boal, giornalista).

[3] E.O.D., è acronimo per ‘end of discussion’ (‘il caso è chiuso’, ‘non voglio sentire altro’) oppure ‘end of day’, per indicare qualcosa che deve concludersi nella giornata. Ma nell’Esercito indica un tecnico volontario esperto nello smaltimento di ordigni esplosivi (Explosive Ordnance Disposal) : la squadra ‘Bravo Company’ nel film è composta da tre militari, due di appoggio e tiratori, ed un artificiere E.O.D. che da solo va a disinnescare la bomba, o le bombe.

[4] I frammenti di dialogo qui riportati sono tratti dal ‘backstage’ del film.

[5] David Beckam (Londra, 1978), premiato come 2°miglior calciatore al mondo nella graduatoria F.I.F.A. 1999 è tuttora quasi una icona per molti giovanissimi appassionati.

 

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